referendum di giugno e

01/27/2016 17:50

alle urne» con un atteggiamento simile, quale che fosse l’oggetto della competizione. La media della partecipazione nelle differenti serie di elezioni costituisce un indicatore efficace, sia pure grossolano: se i tassi di partecipazione più elevati hanno sempre riguardato il voto politico, incentivato dalla formula del dirittodovere, le serie relative alle elezioni amministrative mostrano tuttavia un trend non troppo dissimile. La forte presa dei partiti su tutti i livelli della vita politico-istituzionale è la spiegazione migliore di questo dato. Assai stabili si sono mostrate nel lungo periodo anche le diverse espressioni del voto così come evidentemente i fattori che le spiegano. Uno studio sui tipi di elettore in Italia Parisi e Pasquino 1977 presentava una tripartizione tra voto di appartenenza, di opinione e di scambio, mostrando le caratteristiche stabili di questi tre tipi di elettore. L’elettore di appartenenza - colui che si sente «parte» di un partito o di una determinata cultura politica - raramente nega il suo consenso con manifestazioni di astensione o protesta. L’elettore di opinione fa del cambiamento una propria peculiare strategia, in quanto tende a valutare con attenzione il comportamento degli attori partitici preferiti in precedenza, ma anch’esso tende comunque ad attivarsi e presumibilmente a rimanere in un’area di partiti affini, che con la propria offerta sanno aprirsi alla domanda di questo tipo di elettore. Infine, il voto di scambio è un feno¬meno diffuso, sia pure in aree geografiche e politiche delimitate, che si basa sul calcolo e sull’aspettativa di una controprestazione-, gli elettori di scambio accordano infatti consenso a un partito (o a un singolo candidato) in grado di soddisfare qualche loro precipuo interesse. L’applicazione di questa tipologia al voto italiano durante il periodo 1948-1980 può essere sintetizzata come segue: tutti e tre i tipi di relazioni partito-elettore sono stati diffusi e ben rappresentati, con una prevalenza del voto di apparte¬nenza nelle aree con un predominio subculturale evidente come il Centro e il Nord-Est (cfr. infra)-, il voto di opinione è stato cruciale nel generare piccoli ma determinanti spostamenti di consenso in aree ad alta competizione come il triangolo industriale e altre aree urbane; infine, il voto di scambio è emerso soprattutto in vaste aree del Mezzogiorno, determinando i presupposti per il successo di alcune cordate di politici soprattutto nella De. La persistenza di questi modelli di comportamento ha determinato un’ele¬vata prevedibilità degli eventi elettorali: a livello di elezioni politiche questa affermazione è facilmente dimostrabile guardando all’estrema stabilità che ha connotato, nel tempo, la distribuzione dei seggi parlamentari tra i partiti nelle diverse circoscrizioni eo regioni. Rispetto a questo trend, le competizioni diverse da quelle legislative costi-tuivano in buona misura elezioni di second’ordine0, perché gli elettori vi si avvicinavano pensando alle tematiche generali del dibattito politico, finendo ! Utilizzata negli anni ’80 per spiegare i comportamenti di voto alle elezioni europee, l’immagine delle second order elections si riferisce a un contesto dove gli elettori, pur chiamati a eleggere un corpo rappresentativo diverso, si comportano come se in gioco vi fosse il destino del parlamento e quindi del governo nazionale. per premiare o sanzionare i partiti nel loro complesso e non i rappresentanti locali, provinciali, regionali, ecc. in quanto tali. In particolare, per anni sono state decisive alcune tematiche di ordine generale e in qualche misura simboliche, come la scelta sullo scacchiere internazionale, la posizione sull’integrazione europea, quella circa la religione e la difesa delle «libertà costituzionali». In virtù di ciò, il comportamento elettorale in Italia non è mai risultato dominato da forme di mobilitazione tipicamente locale come quelle che spesso decidono i picchi di partecipazione (e gli stessi risultati) negli Stati Uniti. 2.2. La stagione dei referendum La persistenza dei comportamenti di voto registrata anche nell’ultimo de-cennio della Prima Repubblica celava un qualche mutamento nei rapporti tra elettori, partiti ed eletti che in parte poteva essere intuito guardando al trend della partecipazione (fig. 4.1). Sicuramente vi fu in quel periodo una crescita dell’interesse degli italiani nei confronti della politica, connotata an¬che da una maggiore attenzione alle issues, ovvero alle decisioni che toccano da vicino la vita dei singoli cittadini. Ciò è in linea con i trend consolidati di molte democrazie, che evidenziano l’aumento dell’interesse medio dovuto alla crescita della percentuale di popolazione istruita e alla mobilitazione cogni¬tiva. Ma si tratta anche di un fenomeno legato alla disponibilità di strumenti di partecipazione. In Italia, dal 1970 i cittadini potevano contare sul mezzo del referendum abrogativo, sancito dalla costituzione, ma fino ad allora non regolato dalla legge ordinaria. Tale concessione avvenne in virtù di un com-promesso consensuale tra i partiti dell’arco costituzionale per permettere al movimento cattolico organizzato (e quindi alla De) di ricorrere allo strumento referendario e opporsi «fuori dal parlamento» a una legge come quella sul divorzio, promossa dalle forze laiche di governo e dal Pei. Da questo punto di vista, il referendum rappresentò dunque una garanzia di libertà di movimento per i partiti dell’arco costituzionale. Tuttavia, negli anni l’uso di tale strumento divenne la bandiera di altri soggetti, forze politiche periferiche o marginalizzate come i radicali, l’estrema sinistra e poi, negli anni della crisi partitocratica, ampi cartelli fatti di politici isolati, alleanze trasversali, movimenti tematici ad hoc, talvolta sostenuti apertamente dai media o da determinati gruppi di interesse. La storia dei referendum in Italia, che fino ad ora abbiamo visto solo in relazione alla vicenda dei quesiti elettorali (cfr. cap. 3), dice molto circa il rapporto tra italiani e politica, e in particolare chiarisce le fasi di «declino» della delega incondizionata alla classe politica e ai partiti. Senza entrare nel dettaglio dei referendum, possiamo facilmente rilevare l’al-ternanza di atteggiamenti dell’elettorato piuttosto diversi di fronte a questo strumento (fig. 4.2): dal 1974 al 1985 si tennero 9 referendum in 4 diverse tornate, che ebbero tutti esito negativo, sia pure con margini diversi legati  anche all’origine dei proponenti . Successivamente prese avvio una nuova fase, che vide i partiti progressivamente divisi in modo non coerente con gli schieramenti parlamentari (e talvolta anche al loro interno) se non «defilati» su alcuni temi referendari. Nel 1987 il Psi di Bettino Craxi intravide nell’uso del referendum la possibilità di conquistare nuovi consensi, abbracciando un’iniziativa di forze minori di opposizione (i referendum promossi da eco-  logisti e radicali contro alcune norme sulla produzione di energia nucleare e contro i privilegi dei magistrati). Successivamente furono gli stessi partiti di governo a farsi mettere in minoranza dai già analizzati referendum elettorali del 1991 e 1993, sottovalutando la straordinaria partecipazione popolare. Dopo questa stagione iniziò invece una fase di declino della partecipazione diretta: nessuno dei 24 referendum tenutisi (in sei distinte occasioni) tra il 1997 e il 2009 ha raggiunto il quorum necessario per rendere valida l’eventuale vittoria della proposta abrogativa (fig. 4.3). Soltanto un nuovo referendum elettorale, quello relativo all’abrogazione della quota proporzionale per la Camera del 1999, avvicinò il quorum del 50% degli aventi diritto, ma dieci anni dopo, tre quesiti orientati alla modifica di un sistema elettorale a lista bloccata certamente non amato fallirono miseramente, nonostante l’apertura timida di alcuni partiti. Nel 2011, in occasione dei quattro referendum su nucleare, privatizzazione della gestione delle reti idriche e «legittimo impedimento», si è tornati a superare il quorum del 50% e soprattutto il referendum abrogativo è tornato a determinare effetti concreti, grazie alla vittoria dei «Sì». Dunque, la storia recente ci ripropone la validità di uno strumento che diventa elemento tipico della democrazia consensuale, finalizzato cioè a cercare basi di consenso diverse rispetto alla «maggioranza di governo», ma evidenzia anche i rischi di una certa stanchezza mostrata dal pubblico italiano nell’inseguire richieste talvolta velleitarie e incomprensibili dei movimenti referendari. validi non attribuiti alle due coalizioni maggiori è passata infatti dal 20% del 1994 al 10% nel 2001, a meno dell’1% nel 2006, per poi risalire nel 2008 dopo l’uscita del centro di Casini dall’alleanza con Berlusconi e la decisione del Pd di correre da solo. Altri effetti indiretti sul comportamento di voto, che possono essere ascritti alla riforma elettorale del 1993, erano i seguenti: innanzitutto, l’introduzione, almeno parziale, dei collegi uninominali aveva imposto una radicale riduzione del numero delle candidature rispetto al sistema di lista, limitando la com-petitività all’interno degli stessi partiti e delle coalizioni. Inoltre, una regola come l’incompatibilità tra le candidature tra Senato e Camera, confermata anche nel sistema adottato nel 2005, e altri meccanismi tipici dei sistemi maggioritari determinavano precisi vincoli per il processo di selezione par-lamentare. Considerando che il «profilo personale» dei candidati nei collegi uninominali poteva fare la differenza in un numero relativamente elevato di collegi «aperti», si capisce come in questi anni il quadro della competizione politica sia stato cambiato in modo significativo, costringendo le élite parti-tiche a rinunciare a una parte della propria autonomia nel gestire il processo di selezione parlamentare. Ovviamente, anche la regolazione delle campagne e della comunicazione politico-elettorale è stata influenzata dal sistema elettorale maggioritario. Tuttavia, a rendere la competizione maggioritaria del tutto diversa dal passato e focalizzata essenzialmente sulle figure dei leader sono stati soprattutto con-dizionamenti di tipo politico: in primis, la presenza di una figura come Silvio Berlusconi che ha letteralmente diviso il paese contribuendo a coagulare in positivo e in negativo le due coalizioni, e poi l’uso della televisione, ancora più «guidato politicamente» anche rispetto ad altre democrazie come per esempio gli Stati Uniti, se non altro per il fatto che il rapporto tra consumo di televisione e consumo di altri media è in Italia del tutto sbilanciato a favore della prima. Sulla base di quanto detto sino ad ora, è facile capire perché il tradizionale alto tasso di partecipazione elettorale e l’elevata prevedibilità del voto - i due elementi caratterizzanti il comportamento politico in Italia prima del 1992 - siano stati sostanzialmente messi in crisi nella fase maggioritaria. Gli eventi susseguitisi alla riforma del 1993, pur senza cancellarli, hanno in effetti ridotto tali fenomeni. Per stimare l’effettiva grandezza dei recenti cambiamenti del comportamento elettorale nel modello italiano, possiamo partire dalla distribuzione diacronica di alcune semplici misure di volatilità e società di inserimento dati mutamento elettorale (tab. 4.2). Più precisamente, osserviamo le misure della volatilità totale - cioè la misura del cambiamento nel sistema partitico data dalla somma degli scarti tra le percen¬tuali di voto ottenuto da ogni partito tra un’elezione e l’altra - e della volatilità di blocco - un indice simile, che tuttavia misura il cambiamento della quantità di consenso tra i partiti di destra e sinistra. Inoltre, includiamo nella batteria di indicatori due misure correlate alla dimensione del cambiamento elettorale: la percentuale complessiva ottenuta dai partiti storici (ovvero i protagonisti della fase costituente più il partito neofascista nato nel 1948) e la misura del ricambio TAB. 4.2. Misure del cambiamento elettorale. Elezioni della Camera dei deputati (1953-2008) VOLATILITÀ TOTALE VOLATILITÀ DI BLOCCO FORZA ELETTORALE DEI PARTITI STORICI TURNOVER PARLAMENTARE 1953 13,3 4,6 90,3 35,9 1958 4,5 1,0 93,6 33,9 1963 7,9 1,3 97,0 34,6 1968 3,4 1,4 92,7 36,6 1972 4,9 1,1 96,0 32,5 1976 8,2 5,4 96,6 39,6 1979 5,3 0,7 92,5 26,6 1983 8,5 0,3 93,1 31,8 1987 8,4 1,1 89,9 31,3 1992 14,2 5,2 77,4 41,2 1994 36,2 5,8 58,5 66,8 1996 18,2 6,6 - 43,5 2001 22,0 3,2 - 41,9 2006 19,5 1,8 - 42,3 2008 21,2 2,2 - 40,8 Nota: La volatilità di blocco viene calcolata sulla base di due blocchi: quello di sinistra comprende Pei, Psi, Psdi, Pri, Psiup, Dp, PdsDs, Pdci, Re, La Rete, Verdi, Ad, Ppi, Democratici, Ri.Tutti gli altri partiti sono stati computati nel blocco di destra. I partiti storici sono quelli dell'arco costituzionale (De, Pei, Psi, Psdi, Pri, Pii) e l'Msi. Fonti: Elaborazioni su dati ufficiali del ministero dell'Interno. I dati sul turnover parlamentare sono elaborati dagli archivi sulla classe politica italiana del CIRCaP, Università di Siena. parlamentare, che può essere il risultato di un eccezionale spostamento eletto-rale, dell’improvviso successo di nuovi partiti, ma anche di un cambiamento generazionale all’interno della dirigenza di un partito stabile. Questi dati sono stati oggetto di un’accurata analisi specialistica Bardi 2006 che